ENIGMI PRIMORDIALI A BURGESS SHALE
Telmo Pievani
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 5 dicembre 2011
OÙ SOMMES-NOUS?
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[…] II messaggio contenuto nelle più recenti scoperte sull'evoluzione degli ominini e dei primati comincia allora ad acquisire una sua generalità.
E’ tempo di allargare ulteriormente la visione e di dominare come a volo di uccello l'intero regno animale. Pluralità e contingenza sfidano antiche e confortanti modalità di classificazione e di rappresentazione delle storie naturali anche a questa larga scala. Già, perché i soggetti che si lasciano fuori dalle tassonomie sono tanto significativi quanto quelli che vi si includono. Il principio della tassonomia come pensiero influente - e perciò della rilevanza degli esclusi! - vale particolarmente nella scienza paleontologica, tanto che in alcune occasioni la revisione della classificazione di una fauna locale può segnare l'inizio di una riorganizzazione generale dei dati osservativi e di un vero e proprio scontro di prospettive sull'evoluzione.
Il paleontologo americano Stephen J. Gould (1941-2002) ha ritenuto di identificare un episodio del genere nella celebre monografia La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia (1989), un riconosciuto capolavoro di prosa scientifica che dal momento della sua uscita non ha smesso per vent'anni di generare dibattiti e anche aspre polemiche. Si direbbe che la posta in gioco "filosofica" sia molto alta, a giudicare dalla veemenza dei conflitti personali, dalle prese di posizioni polarizzate e dalle dichiarazioni di altrimenti assai moderati scienziati.
Si tratta di una controversia forse ancora senza vincitori né vinti, ma preziosa per comprendere le modalità con cui idee come "progresso" e "contingenza" sono interpretate e discusse nell'ambito degli studi evoluzionistici.
Il nostro zoom adesso si sposta agli inizi della diversificazione di tutti gli esseri viventi dotati di più cellule, agli albori insomma della vita complessa come la conosciamo oggi.
Mettiamo a fuoco il caso di un ritrovamento così straordinario che da più di un secolo non smette di regalare agli scienziati sorprese e aggiornamenti. Burgess è una località canadese nelle Montagne Rocciose settentrionali, al confine orientate della British Columbia.
Nei suoi sedimenti fu scovata una grande quantità di fossili di animali pluricellulari dal corpo molle, ottimamente conservati, imprigionati in depositi di argillite ("shale"), risalenti a circa 505-520 milioni di anni fa, il periodo immediatamente successivo alla cosiddetta "esplosione del Cambriano" (550 milioni di anni fa circa), cioè alla nascita in pochi milioni di anni di tutti gli animali o metazoi.
Burgess è ancora oggi uno dei più importanti giacimenti cambriani mai scoperti, un deposito eccezionale che per fortunate coincidenze di sedimentazione ha preservato le impronte delle parti molli degli animali (come per Ida, ma con quasi mezzo miliardo di anni in più!).
La rarità geologica degli argilloscisti di Burgess Shale consistette probabilmente nel fatto che gli animali, che vivevano in una nicchia ecologica particolare (acque basse, molto ossigeno, buona illuminazione), furono trascinati verso fondali più profondi da una frana dei sedimenti fangosi, e così rapidamente seppelliti in un ambiente privo di ossigeno che ne ha garantito la migliore conservazione.
Dagli scavi delta Canadian Pacific Railway erano emersi fossili di trilobiti, artropodi marini ora estinti ma un tempo di grande successo, già negli anni Ottanta dell’Ottocento.
Il letto fossile principale fu però scoperto nel 1909 (involontario omaggio al primo centenario della nascita di Darwin) da Charles Doolittle Walcott, il più autorevole paleontologo americano dell’epoca, segretario della Smithsonian Institution di Washington DC, che organizzò nel Canada meridionale cinque campagne di scavi dal 1910 al 1917, disseppellendo circa 65.000 fossili e 8000 esemplari di animali cambriani dei più diversi tipi.
Una collezione favolosa che avrebbe assorbito gli sforzi di intere generazioni di studiosi.
Alcuni di questi animali fossilizzati - che lui interpretò come meduse, oloturie e vermi anellidi - non avevano parti dure, eppure erano impressi nella roccia con una chiarezza squisita. Walcott raccolse i fossili con rigore e attenzione ma, oberato dagli impegni amministrativi (succedeva anche allora...) e piu interessato ad altre epoche della storia naturale, non ebbe mai il tempo di studiarli come avrebbero meritato. Si limitò a pubblicare alcuni studi preliminari, con l'indicazione di una tassonomia generale dei pluricellulari di Burgess e la fissazione dei nomi più importanti, poeticamente tratti dai nomi indiani dei laghi e delle montagne dello Yoho National Park in British Columbia.
II primo grande evento di radiazione evolutiva (cioè di veloce disseminazione di nuove forme), che fa da spartiacque fra pre-Cambriano e Paleozoico, risulta ancora oggi piuttosto oscuro, per i tempi, i modi e le cause che lo hanno prodotto.
La fauna di Burgess è la migliore e più vasta testimonianza della prima fauna pluricellulare che abitò gli oceani poco tempo dopo l'esplosione di forme.
L'enigma del Cambriano, che già angosciava Darwin a suo tempo e che non ha smesso di turbare i sonni gradualistici, si può sintetizzare in tre interrogativi connessi fra loro: perché la vita pluricellulare comparve così tardi nella storia della Terra, dopo tre sterminati miliardi (!) di anni di apparente monotonia unicellulare? Perché questa comparsa tardiva si staglia così repentinamente nella documentazione fossile?
Perché gli organismi della fauna di Burgess, già ben strutturati anatomicamente e con una notevole complessità di relazioni fra loro, non sembrano all'apparenza avere antenati comuni diretti, prevedibilmente più semplici, in ritrovamenti più antichi?
E infine, perché dall'esplosione del Cambiano fino a oggi non si nota la comparsa di nuovi piani corporei fondamentali, con la sola eccezione forse delle colonie arborescenti dei Briozoi?
Nel 1854 il geologo Roderick Impey Murchison diede dell'enigma cambriano una spiegazione molto semplice: i pluricellulari del primo Cambriano (a quel tempo le prime testimonianze in assoluto di vita complessa sulla Terra, il presunto inizio di tutto) non potevano che essere l'oggetto stesso della creazione divina e rappresentavano i modelli già ben progettati per lo sviluppo delle forme di vita successive.
Darwin cinque anni dopo, in L’origine delle specie, citò l'ipotesi di Murchison e negò che il Cambriano potesse essere il periodo di nascita della vita in sé.
L'argomentazione darwiniana, per quanto non del tutto adeguata come vedremo fra poco, portò la discussione nell'alveo della scienza moderna: la vita del pre-Cambriano doveva essere costituita di animali più semplici, predecessori di quelli rinvenuti, e la nostra ignoranza su questa epoca di "vita invisibile" era da imputare all'imperfezione dei dati paleontologici, in particolare all'inesistenza di tracce relative alle parti molli degli organismi più antichi. In poche parole, Darwin pensò che l'esplosione di forme fosse un artefatto della documentazione, una sorta di "illusione ottica", e che il Cambriano fosse l'inizio della vita fossilizzabile, con parti dure e Conchiglie, e non della vita in quanto tale.

 MICROBI DENTRO MICROBI DENTRO ALTRI MICROBI

Oggi su quegli altri quattro quinti della storia della vita sappiamo molto di più. Ma il messaggio che ci restituisce il tempo profondo è spiazzante, perché scopriamo anzitutto che l'evoluzione nelle sue prime fasi ha probabilmente preferito molto più l'associazione della competizione.
Le ricerche più recenti sembrano convergere nella retrodatazione dei primi passi della vita. Tracce isotopiche della presenza di vita sulla Terra potrebbero gia esistere in rocce di 3,75 miliardi di anni fa (dopo il raffreddamento della crosta terrestre, iniziato 4,5 miliardi di anni fa), in particolare in alcune rocce sedimentarie (le più antiche finora scoperte) di Isua in Groenlandia.
Tracce invece morfologiche di vita sono state rinvenute in rocce australiane vecchie di 3,5 miliardi di anni: esse contengono alcune cellule e resti di stromatoliti, cioè sedimenti di batteri e alghe azzurre. In linea teorica la vita sembra comparire appena le condizioni fisiche lo consentono: oltre i 3,7 miliardi di anni infatti le rocce sono così "metamorfosate" che comunque non potrebbero presentare indizi di sostanze organiche rimaste integre.
Una seconda indicazione di fondo riguarda invece la sorprendente stabilità dell'evoluzione degli organismi unicellulari procarioti per un lunghissimo periodo dopo l'apparizione dei primi esemplari: non vi sono segni di un lungo e graduale aumento della complessità delle forme organiche per quasi due miliardi e mezzo di anni, ovvero quasi due terzi dell'intera durata della vita sulla Terra.
Le prime cellule con nucleo fecero il loro ingresso nella cronologia biologica in virtù di un processo di unione simbiotica fra organismi più semplici, realizzando
così un'importante transizione evolutiva ma senza innescare, neppure in questo caso, un'apparente diversificazione graduale nelle epoche successive.
Si noti che simbiosi qui non significa soltanto "vita comune".
E’ una forma di intimità più radicale, un'associazione per la vita: consiste nell'incorporare un altro organismo e trasformarlo in un modulo funzionale specializzato, con reciproca soddisfazione; oppure essere parassitati da un predatore interno e trovare una soluzione di compromesso al conflitto fra i suoi interessi e quelli dell'ospite.
Un crescente numero di scoperte in campo microbiologico illumina oggi sul palcoscenico evoluzionistico questo nuovo attore. Il dibattito in realtà divampò all'inizio degli anni Settanta, quando Lynn Margulis avanzò l'ipotesi dell'origine simbiotica degli eucarioti per incorporazione di mitocondri e cloroplasti, trasformati in organelli interni. >
Archiviate le prime controversie, l'analisi del DNA residuale di questi ex batteri e altre evidenze hanno in questi anni consolidato il consenso attorno all'ipotesi della simbiogenesi.
Gli eucarioti deriverebbero da una o più fusioni fra archeobatteri e simbionti proteobatterici fagocitati.
Non è una nuova "teoria dell'evoluzione", ma la scoperta di un ulteriore meccanismo di cambiamento evolutivo prima sottovalutato.
I simbionti interni (endosimbionti) sono in grado di trasformare profondamcnte le proprietà metaboliche, strutturali e riproduttive dei loro ospiti, con i quali ingaggiano una stretta coevoluzione. Conflitti e convergenze mutualistiche di interessi si alternano di caso in caso.
Esistono endosimbionti dentro altri endosimbionti, come in una matrioska: microbi dentro microbi dentro altri microbi (Zimmer, 2000).
Alcuni hanno trovato il modo di farsi trasmettere dalle uova e sono così perfidi da sterilizzare le femmine non portatrici o di uccidere gli embrioni maschili. In talune circostanze le interazioni ospite-simbionte possono anche contribuire a separare una popolazione biologica e a condurla verso la speciazione.
E’ interessante notare come alcuni passaggi fondamentali dell'evoluzione siano stati causati da queste rotture delle barriere "individuali".
Nel caso dei simbionti, come delle colonie di organismi e delle società di insetti, non è peraltro chiaro dove si situino i confini dell'individuo biologico, tanto che si è introdotto il termine di "superorganismo".
Benché possa essere veloce e senza forme di transizione, l'endosimbiosi ha bisogno di tentativi ed errori, di mutazioni e trasferimenti genetici, di compromessi fra pressioni selettive.
Di certo, è una forza di cambiamento particolarmente antica.
Nel 2009 il microbiologo dell'Università della California a Los Angeles James A. Lake ha annunciato la scoperta di evidenze di endosimbiosi già in alcuni procarioti, le cui doppie membrane si sarebbero originate dal consorzio proficuo fra un attinobatterio e un clostridio.
Questi due unicellulari, unendosi, avrebbero dato vita a un nuovo lignaggio di procarioti, antenati dei mitocondri stessi e dei primi fotosintetizzatori, e dunque connessi alla produzione dell'ossigeno atmosferico, segno che queste microassociazioni di organismi invisibili hanno plasmato la fisiologia dell'intero pianeta per due miliardi di anni, dettando i vincoli fondamentali della successiva evoluzione delle forme di vita cosiddette "complesse", la nostra compresa.
Organismi unicellulari e geosfera hanno dunque interagito a lungo, creando le condizioni ambientali per la nascita di forme di vita più complesse, che tuttavia continuano a dipendere dai loro predecessori.
Un altro tassello del grande mito del progresso evolutivo comincia a scricchiolare. Non ci piace essere legati da un filo così stretto alle umili attività di batteri inglobati in altri batteri, ma solo perché non ricordiamo che pure la nostra fisiologia attuale dipende dalla presenza di una comunità di alcuni miliardi di loro nel nostro corpo.
A modo nostro, anche noi siamo un superorganismo o un condominio equosolidale.
Ma soprattutto, se la natura precede anche per coabitazione e integrazione, non è detto che il livello di organizzazione "superiore" si sia emancipato dai sistemi di livello inferiore.
Non dovremmo darci troppe arie, insomma: se gli animali "superiori" scomparissero dal pianeta, il tappeto sterminato di microrganismi in competizione e coevoluzione fra loro sopravvivrebbe serenamente.
Viceversa, noi senza questo brulicante “microbioma” interno non digeriamo nemmeno un boccone.

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Da La vita inaspettata, Raffaello Cortina editore, Milano 20011
Immagini: Janos Vaszari+1, Luciano Trina